venerdì 8 novembre 2013

Su sessismo, violenza e fascismo (anche) nella sinistra. Che fare?

Sabato 9 novembre all'ARCI Bellezza (in via Giovanni Bellezza 16A), dalle h. 14 un appuntamento interessante, e importante per le ragioni esposte sotto dalle promotrici [in seguito  allo "scherzo della bandiera"]. 
L'incontro si aprirà dando spazio alle testimonianze su alcuni casi in cui le donne dei movimenti antagonisti si sono ritrovate vittime di sessismo, o addirittura di violenze, proprio negli ambiti del movimento. Si tenterà di dare delle definizioni (e citazioni di testi) riguardo ai concetti di riferimento, facendo un brain storming aperto e una raccolta di suggestioni collettive, che includano il tema (non banale) della lotta contro se stessi ... 
Ma soprattutto sarà al centro l'idea di un "vademecum deontologico del rivoluzionario: con un dibattito collettivo finalizzato alla stesura del breviario tascabile che fissi dal punto di vista etico l'espressione della libertà comportamentale dell'antagonista".
La riflessione proposta ci sembra un'importante occasione per tutti, per questo auguriamo alle promotrici il massimo successo. Ecco il loro invito:

Siamo Giulia, Marica e Silvia. Il 28 settembre 2013 siamo state oggetto di un'aggressione sessista, fisica e verbale, nonché del grave danneggiamento della vettura di una di noi, da parte di alcuni degli occupanti dell'Acqua Potabile di Milano, per tre giorni sede di Temporary Zam 3.1.
Abbiamo deciso di esporci pubblicamente per trasformare questo vergognoso episodio in un'occasione di riflessione condivisa, all'interno dei movimenti antagonisti, sui problemi di sessismo e fascismo nell'autonomia.
Il risultato di un mese di lavoro in questo senso, condotto secondo regole di trasparenza, determinazione e spirito di servizio, ha riscosso infine un'innumerevole sequela di prese di distanza: non per i temi proposti, che tutti hanno reputato importanti, ma per presunte modalità o piattaforme fumose nella giornata da noi organizzata.
E' stato chiaro fin dall'inizio, in tutte le nostre comunicazioni, che si tratterà invece di un momento di assemblea libera e aperta ai contributi di tutti quelli che hanno delle riflessioni e dei racconti da condividere in merito.
Le relatrici che hanno aderito all'iniziativa, come ad esempio Monica Lanfranco, Laura Cima e Lidia Menapace - che per prima lanciò, moltissimi anni fa, il tema del patriarcato di sinistra, nel quasi deserto di reazioni - ci hanno dato la misura, con i loro racconti, di quanto le donne abbiano vissuto storicamente in maniera pervasiva il sessismo negli ambienti a sinistra, e di come il nostro personale episodio si iscriva in una lunga e lugubre serie di eventi analoghi.
Tutti i liberi pensatori che, Sabato 9 novembre dalle ore 14:00, decideranno di essere con noi presso il Circolo Arci Bellezza, potranno ragionare insieme di questo, contribuire alla ricostruzione storica di tali orizzonti culturali e delle loro nefaste conseguenze per il movimento, e con la loro presenza daranno un contributo fondamentale al nostro sentito tentativo di squarciare l'italiana coltre di ipocrisia e silenzio che tutto copre e separa.

In preparazione dell'incontro, ecco alcuni spunti che, da parte nostra, speriamo siano utili ad avviare una riflessione critica
Sessimo, simbolo, provocazione, fascismo, denuncia
La “Bagatella per il massacro” (come scriviamo nel nostro comunicato) o l' “atto provocatorio” che ha innescato l'aggressione fisica nei nostri confronti da parte di alcuni occupanti di Temporary ZAM 3.1, tra cui Rete Studenti Milano, è stato “lo scherzo della bandiera”: cioè l'aver staccato dalla porta dell'ex “Acqua Potabile” a Milano, la bandiera del militante antifascista Davide Cesare detto Dax, ucciso da un agguato fascista nel marzo 2003.
Per noi questa aggressione è del tutto inaspettata: tra i nostri riferimenti simbolici di tipo politico e culturale, giocare con l'oggetto bandiera non risuona come un'onta, una profanazione di una sacra reliquia, come la croce cristiana in una Chiesa cattolica o il vessillo nazionale su una caserma dell'esercito militare. Alla luce dei fatti, ci interroghiamo intorno alla valenza del simbolo nella cultura antagonista. Naomi Klein e NoLogo, il multiplo serigrafato del volto di Ernesto “Che” Guevara, l'impostazione wahroliana del pensiero pop, Jean-Luc Godard - solo per citarne alcuni – ci hanno nei decenni scorsi suggerito di distinguere immagine e oggetto, identità e pensiero, ad esempio prendendo le distanze dall'ambiguità di riferimenti nel reale di una fotografia, indicando piuttosto a interiorizzare i residui teorici di un feticcio, una rappresentazione o una delega.
Quello che abbiamo vissuto ci è sembrato invece il gonfiarsi di una volontà di potere e di violenza che nella bandiera ha trovato solo una motivazione funzionale allo sfogo. Per noi il “gioco con la bandiera” doveva servire al contrario, a disinnescare quella violenza, spostando il conflitto su un piano ironico. Ci pare che a causare l'impulso violento fosse stato piuttosto il nostro contestare concetti come “casa nostra” riferito ad un luogo occupato, connotazioni sessiste del linguaggio comune come “rompere i coglioni”, atteggiamenti fisici come spintarelle, palpeggiamenti e “mani in faccia” che abbiamo nominato fascismo. Forse quello che simbolicamente si è dimostrato più destabilizzante, disarticolante, è stata la non-corrispondenza della disobbediente stregosa, di noi cioè, che non “garantiamo la nostra sottomissione, a suon di battiti di ciglia”, rendendo loro impossibile il dialogo con il soggetto ribelle (donna) che non incarna il corpo riverente sessuo-sensuale che le è stato socialmente assegnato.
A questo proposito adottiamo la lettura di Paolo Virno da parte di Marco Scotini in Alfabeta n.25 (anno III dicembre 2012- gennaio 2013), in cui si definisce molto bene la differenza tra disobbedienza civile e disobbenza sociale. “[..] Se condizione della disobbedienza civile era il riconoscimento di un ente superiore che produce norme e che come tale, non viene posto in discussione, tale ruolo di soggezione alla sovranità o ad una entità trascendente non è più garantito dai modi della disobbenza sociale. [..] Il primo ordine ad essere violato dalla disobbedienza sociale è infatti una norma che precede tutte le altre ed è presupposta da tutte le altre. Questa norma non scritta e che nessuno mette in dubbio, afferma l'obbligo di obbedienza come tale. Essa recita: “E' necessario obbedire alle norme”, come presupposto dell'autorità in quanto diritto di comandare e di essere obbediti. La disobbedienza sociale non viola la legge ma modifica le condizioni in cui continua a proporsi il vincolo statale come tale”.
Come Virno indica in pura potenza creativa questa nuova pratica della disobbedienza sociale all'interno dei movimenti antagonisti, così a nostro parere, la stessa pratica da parte del soggetto ribelle donna contro il sistema patriarcale dominante e i suoi simboli (come la bandiera), riveste la medesima potenza creativa. Ragion per cui ci chiediamo: cosa è davvero successo a livello simbolico?
L'incapacità all'ascolto delle istanze argomentative che ponevamo, ci ha catturato in un avversario con il quale non esiste confronto possibile, in un nemico di tutti da non guardare in faccia, in uno spauracchio che doveva “bruciare vivo”. Premesso che ci poniamo al di fuori dell'equivoco “sessidiota” che vede nell'aggressione fisica ad una donna il raggiungimento della parità tra i sessi, siamo certe che essere paritari non significhi essere uguali ma di sesso opposto , come “essere contro” non può significare essere uguali e contrari. Al maschio che si chiede se menarci o no in quanto donne, noi rispondiamo con una dialettica metafisica (in senso etimologico) che non ha genere.
Il sessismo dunque non si è espresso nell'aggressione fisica contro tre donne, ma al contrario nelle frasi che l'hanno preceduta: “non ti picchio perchè sono uomo d'onore” significa vorrei ammazzarti perchè parli; “aveva ragione mio padre, le donne come voi devono stare sotto” significa perchè non mi fai un pompino invece di rompere i coglioni, ché!, non ti piace il cazzo?
Ulrike Meinhof diceva “La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più”. La resistenza antisessista è una condanna meticolosa che insiste sull'inclinazione ad assumere acriticamente il linguaggio comune - parlato dai padri e dalle madri, dal sapere, dalla televisione, finanche dalla cultura antagonista stessa - come eredità, come dono, come documento d'identità.
Questo linguaggio così facilmente e incosapevolmente spendibile come una moneta franca nei più diversi ambienti e circostanze, contiene in sé un dispositivo discriminante ben oliato dalla già improduttiva - seppur non ancora entrata di fatto nell'uso comune come patrimonio collettivo - rivendicazione femminista della “a”. “Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”: la frase di Rosa Luxemburg rivela altresì che l'atto più conservativo e antirivoluzionario si nasconde nelle pieghe del linguaggio.
C'è allora equivalenza tra il difendere il feticcio della bandiera di Cesare Davide “Dax” e una parlata sessista. Un io che vuole autodef inirsi altro dalle proprie manifestazioni (sessiste e/o fasciste), e innalza questa autorappresentazione “buona” a garante di un significato sano di quelle parole e di quei simboli, mente.
La resistenza antisessista si esplica in una pratica politica che é da che mondo è mondo quotidiana! Qui definiamo l'idea di un “politico praticato di genere”. Tale per cui un uomo gioca allo “spettacolo del politico”, costringendo il gesto antagonista nel reality della rivoluzione, stretto in un appuntamento collettivo extra-ordinario; e tale per cui una donna agisce in un “politico diffuso”, in cui decide di correre un pericolo politico, che vale la pena di correre ogni volta che il campanello d'allarme di una limitazione alla sua libertà palesi una contraddizione tra un senso del mondo assodato come culturalmente liberato e il mondo così com'è.
Sia chiaro una volta per tutte, la limitazione di libertà che ripudiamo è quella che nella narrazione hominide viene nominata provocazione. Provocazione che, a seconda delle necessità maschili, traduce seduzione remissiva o viceversa l'avamposto invalicabile di una zona autonoma del corpo, del pensiero e dell'azione femminili. Tuttavia in quanto donne, non siamo esenti da una serie di errori.
Conosciamo il fascismo come una predisposizione all’intolleranza che si può manifestare in ognuno di noi e che richiede costante autodisciplina per essere disinnescata: un nemico interno a se stessi inidentificabile quanto il terrorista nella folla, risulta per finezza di potere mimetico, estremamente più minaccioso di un testarasata che ti si para davanti. Il presentarsi di un fatto (il nostro, noi, noi come fatto) senza mediazione di rappresentazione alcuna (ossia le deleghe a linguaggio, immaginario e senso comuni) ha disorientato anche le donne del Collettivo Ambrosia, presenti quella sera; le quali, pur “lavorando i grandi temi del femminismo” dentro e fuori dagli spazi sociali, non li hanno saputi individuare in cioche stava succedendo. Senza movimento autocensorio, è stato facile, quasi inevitabile, trovarsi nel vicolo cieco del gruppo clandestino che, come Ida Farè descriveva già nel 1979, “si pone per definizione contro e fuori del sistema, ma non ha la possibilità di pensarsi e di definirsi, nel senso che il suo "contro" non può che trasformarsi in uguale anche se contrario. Non riesce più a trovare la possibilità di costruirsi e di differenziarsi dal quel sistema violento che vuole combattere e finisce per essere travolto e per indossare il vestito che lo stato gli dà” (cit. Ida Farè / Franca Spirito Mara e le altre - Le donne e la lotta armata:  Economica Feltrinelli, 1979)
Noi ci sentiamo parte di quella tradizione rivoluzionaria e antagonista che nella storia ha sempre tracciato netta la linea tra la legalità e l’illegalità, riconoscendo come necessario a ogni conquista civile il passaggio attraverso quella zona fuori dalla legge che sola permette alla legge di cambiare per il meglio (Primo Moroni), riconoscendo il valore della ribellione anche violenta, dell’esproprio, del sabotaggio. Ma, come dice Ulrike Meinhof, se si bruciano centinaia di macchine, è un’azione politica, se si brucia una macchina, è reato. La violenza immotivata da adeguate istanze politiche e diretta contro il singolo non può essere difesa come se fosse l’azione violenta contro un’istituzione oppressiva o un potere costituito, se non a costo di giustificare la prima e sporcare la seconda. Per questo, come è giusto denunciare un poliziotto che abusa del proprio potere sulla carne di un attivista politico, come è giusto denunciare un membro della propria famiglia, un padre, un marito, un fratello, che infligge una violenza domestica, allo stesso modo non può che essere giusto denunciare questi fatti.
Risuona di antichi vizi italiani quel ritorno all'ordine omertoso a cui la vittima di violenza è sempre richiamata: dunque chiediamo chi o cosa metta in pericolo un centro sociale? Ciò che è successo è stato un atto ingiustificabile come risposta, reazione. Voler traslare ad ogni costo il pericolo su chi ha liberato questi comportamenti, per liberare dalle sue responsabilità chi li ha agiti, porta inevitabilmente al paradosso. Il pericolo si moltiplica con la sua negazione.
Chiediamo prima di tutto al Collettivo ZAM e a Rete Studenti Milano di essere con noi con le loro riflessioni critiche sul fatto in questione.
Per contatti e contributi scrivete a: Loscherzodellabandiera@autistici.org

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